A causa di un virus ignoto la nostra realtà s’è rapidamente trasformata in una sorta di romanzo distopico. Sospesi tra un tempo che si dilata e uno spazio che si restringe, siamo isolati in casa e capiamo cosa sono le frontiere, cosa vuol dire vivere con strade, spazi aerei e porti chiusi. Difatti, c’è chi comincia a dire che il pianeta è entrato nell’era glaciale della mobilità. Senza strade, piazze e luoghi pubblici, questa segregazione scava profondi fossati poiché le differenze sociali si manifestano con violenza nelle diverse forme che lo spazio abitato può assumere. La quarantena in una bella casa è, difatti, tutt’altra cosa dall’esistenza coatta in un tugurio. Anche per questo crediamo che dopo la pandemia dovremmo progettare con cura nuovi edifici e spazi pubblici in cui tutti possiamo riconoscerci come parte di una comunità. Bruce Chatwin ricorda che “l’evoluzione ci ha voluto viaggiatori” e sottolinea che “chi percorre il deserto scopre in se stesso una calma primitiva”. Questo movimento ci è oggi precluso e tutta la nostra socialità dipende dall’esistenza in rete: facciamo smart working, didattica, feste, riti e sport in digitale e, mentre sperimentiamo le molte cose che il nostro Paese avrebbe potuto già fare, non dobbiamo dimenticare le tante, troppe, persone che senza dispositivi e connessione internet non hanno diritto alla cittadinanza digitale. Nell’attesa che questo tempo dilatato finisca, alterniamo momenti in cui crediamo che il dopo ci darà l’opportunità di migliorare il mondo che abitavamo a momenti in cui temiamo che quest’emergenza stia solo servendo a creare nuovi steccati sociali in cui la tecnologia avrà un ruolo cruciale poiché alle barriere fisiche si sommeranno quelle digitali. Intuiamo le implicazioni che questo potrebbe avere sul futuro delle città e crediamo che da architetti dovremmo rielaborare quest’esperienza collettiva riconquistando la dimensione sociale del nostro lavoro. Le differenze che il virus ha messo in luce sono tante e per colmarle dovremmo compiere scelte audaci. In questi giorni c’affacciamo più spesso sull’esterno raccogliendo molte informazioni: le voci di vicini che non conoscevamo o il canto degli uccelli che sono tornati anche in questa strana primavera. Ora che le auto sono ferme ci giunge addirittura il profumo del mare o di quell’albero vicino casa. La vista di questo strano mondo da cui sembriamo temporaneamente assenti ci ricorda che, essendo parte dello stesso ecosistema, dovremmo costruire nuove alleanze tra umani e natura. I balconi e le terrazze delle architetture del Mediterraneo o del deserto, spazi in bilico tra privato e pubblico, ci suggeriscono che è proprio dal progetto di una dimensione ibrida tra costruito e natura che potremmo ripartire. Non è forse questa la condizione in cui vive ed è forse felice chi è vicino al deserto?